Černobyl’ 26 aprile 1986

Černobyl’ 26 aprile 1986

Potendo viaggiare nelle campagne francesi ci aspetteremmo di vedere, oggi, sui cancelli di uno degli impianti nucleari che costellano l’Hexagone, lo striscione di un’associazione ambientalista che ricorda l’anniversario del disastro di Černobyl’, avvenuto all’1 e 23 della mattina del 26 aprile 1986.

Nel 2010, anno in cui è uscito il primo dei due romanzi che oggi vi consigliamo (Elisabeth Filhol, “La Centrale”, Folio, pubblicato in Italia nel 2011 da Fazi Editore, trad. di Maurizio Ferrara) erano in funzione in Francia 19 centrali elettronucleari, con complessivamente 58 reattori operativi, 1 in costruzione e 7 dismessi.

Ed erano trascorsi 29 anni dalla più celebre tragedia nucleare del secolo scorso quando è uscita la seconda proposta di lettura di oggi: “Baba Dunjas letzte Liebe” di Alina Bronsky (Kiepenheuer & Witsch 2015), pubblicata in italiano dalla casa editrice Keller, specializzata in letterature dell’Est europeo: “L’ultimo amore di Baba Dunja” (trad. di Scilla Forti), attualissimo apologo sulla resilienza nello scenario postatomico.

“La centrale”, di Élisabeth Filhol (Fazi Editore, 2011)

Un romanzo dal gusto documentario, che affronta il poco noto tema dei lavoratori precari dell’industria nucleare. Yann, il protagonista, che parla in prima persona, è uno dei manutentori invisibili e a tempo determinato che operano nel cuore delle centrali nucleari, sottoposti a tre fattori infernali: l’altissimo rischio, il nomadismo (la manutenzione avviene quando gli impianti sono in pausa) e la precarietà (il lavoro è gestito dalle agenzie interinali).

Per questi lavoratori a tempo determinato c’è un solo imperativo: non superare la “dose”, la massima irradiazione annuale autorizzata per lavoratore, misurata dal dosimetro che gli operai devono portare addosso sulla tuta («EDF [Électricité de France, azienda produttrice e distributrice di energia in Francia, n.d.a.] raccoglie i profitti, voi raccogliete le dosi»). Il rischio del superare la dose è duplice: minare definitivamente la salute ma anche essere messi da parte dalle centrali per diversi mesi e perdere così la commessa. Yann e i compagni di lavoro si spostano da un luogo all’altro, da un’enclave all’altra – 19 siti, 58 reattori –, in una routine quotidiana che si divide tra il lavoro nella centrale elettrica e il campeggio dove condividono pasti, tempo libero e una sorta di solidarietà.

“L’ultimo amore di Baba Dunja”, di Alina Bronsky (Keller 2016)

E dalla cupezza del lavoro sommerso nelle centrali a un’apologo di resilienza dopo la catastrofe di Černobyl’ 26 aprile 1986. A Černovo, a pochi passi dal terribile luogo del disastro nucleare, nel luogo più bandito degli ultimi decenni, la vita torna a scorrere, grazie ad alcuni anziani – coloro che sono più legati ai luoghi di origine e hanno meno paura della morte – come la grassa Marja, il malato terminale Petrov e l’ex-infermiera Baba Dunja, anziana del villaggio, la cui famiglia è in Germania. I villaggi circostanti sono deserti, ma a Černovo i ragni fanno strane ragnatele, gli uccelli emettono emettono cinguettii diversi e ci sono le api, tante api. Un paesaggio rinaturalizzato, tanto simile a quello che abbiamo tante volte visto in questi giorni di quarantena, in cui l’uomo ha lasciato spazio agli animali.

Alina Bronsky, di cui presto torneremo a parlare, è nata a Yekaterinburg nel 1978, ai piedi degli Urali, luogo in cui la catastrofe di Černobyl’ passò nel silenzio. Conobbe le implicazioni della vicenda solo una volta emigrata in Germania.


Striscioni fuori dalle centrali nucleari di Francia si vedono – purtroppo – anche quando i reattori vengono spenti: è dello scorso 20 febbraio la notizia dello spegnimento del reattore numero 1 dell’impianto di Fessenheim, nel dipartimento dell’Alto Reno, che ovviamente crea polemiche perché il reattore dà lavoro.

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