La fuga senza fine di un viaggiatore di professione

La fuga senza fine di un viaggiatore di professione

Il 30 maggio 1939 Joseph Roth, scrittore, giornalista, grande cantore della dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, si spegneva a Parigi. Al funerale, nel cimitero Thiais, i suoi vecchi amici, riuniti in gruppi, finirono quasi per accapigliarsi nel reclamare il defunto come proprio: legittimisti austriaci, comunisti, ebrei ortodossi, preti cattolici, vecchi anarchici, ufficiali dello scomparso Impero di Francesco Giuseppe. Una personalità artistica, quella di Roth, difficile da etichettare: quello che però esce chiaramente dalla sua opera è l’importanza dell’osservazione, attitudine che aveva affinato negli anni trascorsi da reporter, mestiere che lo portò, tra 1926 e 1928, in Unione Sovietica, in Albania e Jugoslavia, nel bacino della Saar, in Polonia e in Italia. E da reporter scrive nella prefazione a Fuga senza fine: «Io non ho scoperto nulla, inventato nulla. Non si tratta più di “scrivere”. La cosa più importante è ciò che viene osservato» (Adelphi, 1976, trad. it. M. G. Manucci, p. 9).

Il romanzo Fuga senza fine (1927) – che Roth sottotitola come Una storia vera – inizia con un momento fondamentale, per il protagonista Franz Tunda, giovane ufficiale asburgico, e per l’autore: la Prima guerra mondiale, determinante perché porta alla fine dell’Impero austro-ungarico, sul cui confine orientale Roth era nato (in Galizia), e perché segna l’inizio del viaggio di Tunda. Prigioniero di guerra a Irkutsk e poi fuggitivo, Tunda perde il suo nome nella steppa siberiana, si arruola nell’Armata Rossa, vive i primi anni del governo sovietico, si sposta in Caucaso e poi di nuovo a Vienna, Berlino, Parigi. Il circolo non si chiude, però, non c’è un ritorno a casa, alla propria identità, la fuga non ha una conclusione, né un motivo: «Io so soltanto che non è stata, come si dice, la ‘inquietudine’ a spingermi, ma al contrario – una assoluta quiete. Non ho nulla da perdere. Non sono né coraggioso né curioso di avventure. Un vento mi spinge, e non temo di andare a fondo» (p. 58). Sono le parole che Roth fa pronunciare al suo alter-ego Tunda, ma che definiscono entrambi: l’ultima casa dove Roth aveva abitato era stata sulla Postdamer Strasse di Berlino, dove viveva dal 1922 con la moglie Friedl Reichler che quattro anni dopo iniziò a mostrare i segni della malattia mentale e che nel 1940 finì vittima del programma di eutanasia dei nazisti. Dal 1923, anno in cui aveva iniziato a lavorare come corrispondente culturale per il «Frankfurter Zeitung» fino al maggio del 1939, quando morì nell’Ospedale Necker, l’ospizio dei poveri, di Parigi, Roth era vissuto e aveva scritto in camere d’albergo, nei ristoranti e nei caffè.

La progressiva spoliazione di identità, di utilità sociale di Tunda, che si trova, a poco a poco, «senza nome, senza credito, senza rango, senza titolo, senza soldi e senza professione; non aveva né patria né diritti» (p. 15) è quindi anche quella del suo creatore, sempre attivo ma sempre in movimento, sempre straniero, sempre estraneo, ma rappresenta anche, in termini più ampi, la frattura profondissima che la Grande guerra ha generato tra il “pianeta” sovietico e la vecchia Europa, tra la borghesia e i reduci dal fronte, ormai definitivamente esclusi, frustrati, soli.

Nell’ultima pagina del romanzo, ridotto in miseria per le strade di Parigi, Tunda si riconosce, ma senza disperazione: «Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui non c’era nessuno al mondo» (p. 152).

L’individuo si dissolve nel nichilismo, la fuga – o il viaggio – ha fine, così come la società, nel nulla.

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