Pesci, pescatori e salsa di pesce dall’antica Roma a oggi

Pesci, pescatori e salsa di pesce dall’antica Roma a oggi

Sappiamo benissimo, dalle tante e diverse fonti giunte fino a noi, che gli antichi Romani andavano pazzi per il pesce. Immagini di pesci, molluschi e crostacei – oltre che di pescatori – abbondano nell’arte, esistono diverse ricette a base di pesce nei libri di cucina e abbiamo anche testimonianza di una curiosa specialità gastronomica, il garum, una salsa di pesce fermentato, che a noi oggi sembra ai limiti del commestibile ma che curiosamente rivive in diverse parti del mondo.

L’allevamento del pesce: attività da ricchi, per ricchi

Nell’antica Roma il pesce rappresentava una parte significativa dell’alimentazione, soprattutto perché, con le uova e i latticini, era una fonte di proteine animali accessibile anche ai più poveri. Se il pesce d’acqua dolce era un cibo diffuso e ma economico, il pesce di mare, tradizionalmente pescato, divenne tra la fine della repubblica e l’impero un cibo estremamente ricercato, riservato – insieme a molluschi e crostacei – alle mense dei ricchi. Quando infatti Roma, divenuta una metropoli, richiese l’afflusso di enormi quantità di merci per il sostentamento della popolazione urbana, la sola pesca non riuscì più a far fronte alla domanda di prodotto fresco, e si rese indispensabile l’allevamento. La pratica dell’acquacoltura divenne così attività produttiva ma anche vero e proprio status symbol, ostentata nelle grandi ville di lusso con eleganti vasche (piscinae e vivaria), costosissime da realizzare e mantenere ma che consentivano di avere sempre a disposizione ghiottonerie ittiche fresche (assai difficili da trovare nei mercati della capitale).

Columella (De Re Rustica, VIII, 16) ci descrive la “conversione” di specchi d’acqua naturali in zone di allevamento ittico: non solum piscinas quas ipsi construxerant frequentabant, sed etiam quos rerum natura lacus fecerat convectis marinis seminibus replebant. Inde Velinus, inde etiam Sabatinus, item Volsiniensis et Ciminus lupos auratasque procreaverunt, ac si qua sunt alia piscium genera dulcis undae tolerantia (non soltanto popolavano le piscine artificiali, ma riempivano anche i laghi naturali con le uova raccolte in mare. Così il Velino, così anche il Sabatino, il lago di Bolsena e il Cimino generarono spigole e orate e tutte le altre razze di pesci che tollerano l’acqua di lago).

Varrone (De Re Rustica, III, 17) si spinge oltre, descrivendo la suddivisione razionale degli spazi per le diverse specie nei vivaria con un paragone pittorico: ut Pausias et ceteri pictores eiusdem generis loculatas magnas habent arculas, ubi discolores sint cerae, sic hi loculatas habent piscinas, ubi dispares disclusos habeant pisces (come Pausia e gli altri pittori della sua scuola usano tavolozze quadrettate, in cui tenevano separati i diversi colori, così [essi] hanno peschiere divise in compartimenti, dove tengono separati le diverse specie di pesci). L’acquacoltura non è più semplicemente un investimento zootecnico, ma una forma di compiacimento estetico: magis ad oculos pertinent, quam ad vesicam, et potius marsippium domini exinaniunt, quam implent ([le piscine] sono fatte più per appagare la vista che non la tasca, e vuotano la scarsella più che riempirla).

Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, IX 168, 170) riporta che Licinio Murena (cognomenomen da muraena) fu il più antico allevatore di pesci, e che Sergio Orata fu il primo ad allevare ostriche, nel lago di Lucrino, ma nec gulae causa, sed avaritia (non perché ne fosse ghiotto, ma a scopo di lucro): non è un caso che il nome del lago, da lucrum, derivi proprio dall’attività zootecnica di Orata, che divenne uno degli uomini più ricchi dell’epoca, descritto come ditissimus, amoenissimus, deliciosissimus da Cicerone (riportato nel De Beata Vita di Sant’Agostino, XXVI).

Il lato granguignolesco dell’allevamento del pesce nelle grandi ville romane ce lo offre Seneca nel De Clementia (I, 18, 2), quando descrive l’efferata abitudine di Vedio Pollione, che pare punisse i propri schiavi dandoli in pasto alle sue murene: Quis non Vedium Pollionem peius oderat quam servi sui, quod muraenas sanguine humano saginabat et eos, qui se aliquid offenderant, in vivarium, quid aliud quam serpentium, abici iubebat? O hominem mille mortibus dignum, sive devorandos servos obiciebat muraenis, quas esurus erat, sive in hoc tantum illas alebat, ut sic aleret” (Chi non odiava più dei suoi schiavi Vedio Pollione, che ingrassava le sue murene con sangue umano e faceva gettare nel vivaio di bestie serpentiformi chiunque gli avesse fatto il pur minimo torto? Uomo degno di crepare mille volte, sia che gettasse gli schiavi in pasto alle murene che poi avrebbe mangiato, sia che le nutrisse così, solo per il gusto di farlo).

Il pesce e la pesca, allegorie cristiane

Il pesce, e la conseguente attività della pesca e dei pescatori, ebbe fortuna anche nel complesso periodo del passaggio tra l’età romana e il Medioevo. L’immagine stessa del pesce divenne allegoria cristiana: il suo nome in greco, ichthys, era infatti acronimo di Ἰησοῦς Χριστός, Θεοῦ Υἱός, Σωτήρ (Iesoùs Christòs Theoù Uiòs Sotèr, Gesù Cristo Salvatore figlio di Dio”), e nella celeberrima basilica di Aquileia, capolavoro dell’arte paleocristiana, compare sul pavimento un ampio mosaico raffigurante una scena di pesca. In questa straordinaria opera di arte musiva paleocristiana, voluta da Teodoro, vescovo di Aquileia negli anni di Costantino il Grande, la cultura antica viene trasfigurata nella nuova ideologia cristiana, e si nota quanto l’iconografia dei primi cristiani sia debitrice della cultura figurativa ellenistico-romana. La scena di pesca allude alla predicazione del Vangelo: Seguitemi e vi farò pescatori di uomini. Il Regno dei cieli è simile a una gran rete gettata in mare e che ha raccolto ogni genere di pesci. Una volta piena, i pescatori la tirano a riva, poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni in ceste e i cattivi li gettano via (Matteo 4,19,13,47-48). I pesci sono allegoria delle persone che ascoltano la predicazione, la barca della Chiesa, la rete e la lenza del regno dei cieli.

Consumare e allevare pesce nel Medioevo: non solo magro

Ma il pesce non era solo cibo per l’anima, se è vero che l’acquacoltura sopravvisse alla caduta dell’Impero romano, adattandosi alle nuove esigenze dell’alimentazione e della liturgia cristiana. L’allevamento dei pesci – della carpa in particolare – costituiva uno dei più antichi mezzi di sussistenza dei monasteri, anche a seguito della proibizione di consumare carne nei molti giorni di magro, e nelle zone di mare, come a San Pietro a Toczolo presso Amalfi, intorno alla seconda metà del XIII secolo i monaci cistercensi si dedicavano alla pesca e alla conservazione del pescato.

La pratica dell’acquacoltura altomedievale uscì poi dai monasteri per diffondersi nelle campagne, tanto che Carlo Magno sentì la necessità di disciplinare l’allevamento e il commercio del pesce nel Capitulare de villis, emanato tra 770 e 813 per regolare l’amministrazione delle aziende agricole di proprietà imperiale (e trarne profitto per mantenere la corte e le gerarchie degli ufficiali pubblici). Si legge al punto numero 21: Vivarios in curtes nostras unusquisque iudex ubi antea fuerunt habeat, et si augeri potest, augeat; et ubi antea non fuerunt et modo esse possunt, noviter fiant (Ciascun iudex [funzionario dell’imperatore] tenga dei vivai di pesci là dove prima c’erano e, se possono essere ampliati, li ampli; dove prima non c’erano, ma possono esserci, ne crei di nuovi) e al numero 65: Ut pisces de wiwariis nostris venundentur et alii mittantur in locum, ita ut pisces semper habeant; tamen quando nos in villas non venimus, tunc fiant venundati et ipsos ad nostrum profectum iudices nostri conlucrare faciant (I pesci dei nostri vivai siano venduti e sostituiti con altri, in modo che ci siano sempre dei pesci; tuttavia, quando noi non veniamo nelle villae, siano venduti e gli iudices destinino il ricavato al nostro profitto). Una particolare attenzione veniva posta anche ai derivati del pesce (in particolare alla salsa di pesce), come si legge al punto 34: Omnino praevidendum est cum omni diligentia, ut quicquid manibus laboraverint aut fecerint, id est […] garum […], omnia cum summo nitore sint facta vel parata (Occorre dedicare molta attenzione affinché i prodotti alimentari lavorati o fatti a mano: ossia […] la salsa di pesce […], siano preparati e cucinati con pulizia somma).

Il garum e le sue moderne versioni

E la menzione del Capitulare de villis ci porta indietro nel tempo, a un prodotto noto soprattutto per il mondo romano, ma che ancora si consuma a latitudini diverse: il garum, un derivato del pesce così comune e amato dai Romani che Apicio, nel suo ricettario De re coquinaria, lo menziona come “base” in una ventina di preparazioni (per cucinare ad esempio i tartufi o la lepre, VIII, 8, 11) ma ne dà per scontata la ricetta, dicendo solo che è ricavato dalla fermentazione di interiora o tranci di pesce al sole (previa salatura). Dalla fermentazione si separa una parte solida e un liquido (il liquamen).

La “dop” del garum romano era quello che Plinio definiva garum sociorum, il più pregiato, proveniente dalle industrie della provincia di Cadice (Naturalis Historia, XXXI, 93) – ben testimoniate dal sito archeologico di Baelo Claudia –, e forse a questo fa riferimento Marziale in uno dei suoi epigrammi (XIII, 102): Expirantis adhuc scombri de sanguine primo. Accipe fastosum, munera cara, garum (Ricevi il sublime garum, dono prezioso, dal primo sangue di uno sgombro al suo ultimo respiro).

Benché oggi ci sembri un prodotto difficilmente in linea con i nostri gusti, il garum vive ancora in diverse tradizioni gastronomiche, in Italia e fuori. A Cetara, sulla costiera amalfitana, si produce ancora oggi la colatura di alici, un distillato molto aromatico e saporito tratto dalla colatura – appunto – delle alici salate, ma anche il pissalat di Nizza (una salsa ottenuta dalla macerazione sotto sale di teste e interiora di sgombri, sardine, acciughe insaporite da piante aromatiche), il fesikh egiziano (polpa fermentata, salata ed essiccata del cefalo), il prahok cambogiano e il nước mắm vietnamita, per citare i principali, hanno in comune l’essere condimenti derivati da pesce sottoposto a un lungo processo di fermentazione.

Commenti

  1. Commento di Elisabetta Mazzotti

    Grazie Erika Vecchietti è molto interessante questo pezzo di storia Romana.

  2. Commento di ADRIANA

    CARA ERIKA,
    SEMPRE INTERESSANTI LE TUE PILLOLE CULTURALI!!

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